3 - Il convento dei Cappuccini a Cagli: oggetti d'arte

di Massimo Mattiacci




Il convento dei cappuccini di Cagli, con la sua semplicità architettonica, crea un contrasto evidente con i numerosi oggetti d’arte custoditi al suo interno, che la rendono un vero e proprio scrigno ricco di opere da scoprire. In questo capitolo verrà presentata una panoramica sui principali oggetti artistici che per secoli sono stati custoditi all’interno delle mura conventuali. 

3.1 Nel convento 
Le celle del convento rispecchiano la semplicità imposta dalla regola e sono tutte prive di oggetti artistici. L’unica degna di nota è quella di p. Francesco Bonafede da Jesi (1572-1646). In questa stanza una targa ricorda il frate che visse per diverso tempo nel convento di Cagli. Il cappuccino è ricordato come uomo austero e devoto; tutto ciò lo possiamo notare anche dal ritratto del XVII sec. posto lungo la scalinata che porta alla sua stanza, che lo rappresenta con lineamenti aspri e forti. Molto stimato dai cittadini cagliesi, alla sua morte la stanza fu trasformata in oratorio per la devozione dei fedeli. Questa cella è rimasta luogo di preghiera fino ai giorni nostri. All’interno è stata posizionata una tela di autore ignoto del XVI-XVII secolo, raffigurante La Madonna col Bambino e S. Francesco d’Assisi, (cm. 100x150, olio su tela). Questo dipinto era inizialmente collocato sulla parete sinistra della chiesa del convento, ma recentemente è stato trasferito all’interno di questa stanza. L’iconografia di questo dipinto si diffuse alla fine del XVI secolo e raffigura san Francesco nell’atto di baciare il piede del Bambin Gesù. Quest’ultimo è in braccio alla madre e regge in mano una croce che poggia sul capo del santo, come segno di benedizione. I personaggi sono situati sotto un elemento architettonico immerso nella vegetazione, dove si può notare la figura di un simpatico uccellino rappresentato su di un ramo. Sullo sfondo è rappresentata una città, probabilmente Assisi per il legame con il santo, ma rimane comunque di difficile identificazione. 
I personaggi sono raffigurati in maniera molto semplice, cosi come il paesaggio. L’acconciatura della Madonna ci permettere di ricondurre il dipinto al XVI sec., anche se potrebbe trattarsi di qualche pittore posteriore, in ritardo per quanto riguarda lo stile.

Fig.1 - Autore ignoto del XVI-XVII sec., Madonna col Bambino e S. Francesco d’ Assisi, convento dei cappuccini, Cagli.
Oltre questa tela, il convento custodisce altri dipinti sacri che rappresentano soprattutto ritratti di santi. Di autore anonimo è il ritratto di S. Serafino da Montegranaro (cm. 80x42, olio su tela), eseguito nel XVIII secolo probabilmente dopo la beatificazione del frate, avvenuta nel 1729, e in ricordo del passaggio di questo nel convento di Cagli. Nelle biografie del santo questo episodio non viene citato, ma tuttavia è possibile che abbia visitato il convento dopo la sua permanenza a Fossombrone[1].
San Serafino è uno dei santi più amati dai cappuccini, ricordato per la sua umiltà e per i miracoli perpetrati a favore di bambini malati. Un esempio è la guarigione di una bambina sordomuta attraverso l’imposizione della croce. L’episodio viene ricordato in un dipinto all’interno della chiesa. Una scritta nella parte alta ci permette di individuare il santo che è rappresentato con in mano una croce ed una corona del rosario. L’autore di questo dipinto è probabilmente lo stesso che ha realizzato un ritratto simile, conservato nel convento dei cappuccini di Jesi: quest’ultimo differisce solo per due angeli rappresentati in alto a destra. Invece, nel caso di due artisti differenti, entrambi hanno fatto ricorso ad un cliché di raffigurazione del santo. Altri due ritratti sono quello di S. Francesco d’Assisi del XVIII sec (cm. 65x50, olio su tela), che rappresenta il santo a mezza figura in uno stato di “deliquio mistico”[2], ed una Madonna (cm. 35x25, olio su tavola), sempre dello stesso secolo, ben conservata. Lungo i corridoi che portano nelle stanze, sono esposti vari ritratti di frati che hanno segnato la storia del convento ed altri dipinti di epoca recente, tra cui il S. Cuore di Gesù e tre angeli (cm. 96x72, olio su tela) del XIX secolo. La tela rappresenta Cristo in piedi affiancato da tre angeli genuflessi in adorazione, con dei cherubini che fanno da sfondo alla scena. Il dipinto, secondo Santarelli, potrebbe essere opera del pesarese Gaetano Bessi[3], che dipinse anche per i cappuccini di Fossombrone. L’attribuzione rimane comunque incerta. 

3.2 Nel refettorio 
Un discorso a parte meritano i dipinti murali del refettorio che furono riportati alla luce dopo i restauri del 1976, sotto il guardianato di p. Dino Paci. In occasione della sistemazione di un nuovo impianto elettrico, venne spostata una tela raffigurante l’ Ultima Cena: sotto di essa fu trovata una pittura murale cha rappresenta la Lavanda dei piedi . L’Ultima Cena era stata voluta dai frati nel 1833 e con la sua cornice lignea ha coperto perfettamente l’affresco sottostante per 143 anni. Questa tela venne poi spostata nel convento dei cappuccini di Macerata[4]. 
Successivamente, ai lati del rettorio, vennero scoperti altri dipinti murali, raffiguranti santi e personaggi biblici ed un soggetto allegorico.

3.2.1 La Lavanda dei Piedi (cm.165x400, pittura ad olio su parete) 
Narrato solo nel vangelo di San Giovanni, la Lavanda dei piedi rappresenta il gesto che Gesù svolse prima della Cena, come lezione di umiltà agli apostoli[5]. Venne rappresentata all’interno del refettorio, probabilmente come ammonimento per i frati, che si dovevano avvicinare al pasto con umiltà. Inoltre nei conventi era usanza lavare i piedi dei pellegrini, in commemorazione del gesto di Cristo[6]: potrebbe quindi essere un richiamo a questo. Nella scena, Cristo è vestito di bianco con un mantello blu e, genuflesso, regge in mano il piede dell’apostolo Pietro su di un catino con l’ acqua. Attorno ai due, i discepoli li guardano incuriositi e stupiti. Alcuni sono in piedi, altri seduti al tavolo dell’ ultima Cena; vi sono, inoltre, altri due apostoli a cui è stato praticato lo stesso servigio che si asciugano i piedi. Nella scena sono stati inseriti anche altri personaggi: sulla destra è rappresentato un ragazzo che asciuga un piatto, al centro un fanciullo che porta la brocca con l’acqua e sulla sinistra un personaggio rivolto verso chi guarda. Quest’ultimo gesto richiama l’attenzione dell’osservatore, per renderlo partecipe alla scena. Identificare tutti gli apostoli è difficile, ma, osservandoli bene, si può riconoscere ad esempio la figura di Giovanni, rappresentato in piedi al centro con una mano sul petto. L’apostolo si riconosce sia dal colore della tunica, sia dal volto giovanile, imberbe, che lo caratterizza iconograficamente. Un uomo al suo fianco, con una barba bianca, lo afferra per un braccio. Molto probabilmente si tratta dell’apostolo Andrea, fratello di Pietro, rappresentato spesso come un uomo anziano e, come in questo caso, simile per fisionomia al fratello. L’artefice ce lo fa intuire anche dai colori azzurro e giallo delle vesti, uguali a quelli del fratello. I personaggi rappresentati differiscono l’uno dall’altro. Molta più cura è stata riservata ai protagonisti, mentre più semplici sono gli Apostoli. I contorni delle figure sono poco definiti, probabilmente a causa dello stato di conservazione del dipinto o di un rimaneggiamento successivo[7]. 

Fig. 2 - Autore ignoto del XVII sec., Lavanda dei piedi, convento dei cappuccini, Cagli. 
La scena è posta in diagonale ed in una stanza cupa, dove la luce è emanata da un lampadario appeso. La forma della lumiera è stata poi ripresa dopo il restauro per i lampadari all’interno del refettorio, creando così una sorta di continuità tra la scena dipinta e la stanza.
Ai margini, una cornice racchiude la scena. Fuori di questa sono posti due santi: a destra S. Antonio da Padova, con il giglio, a sinistra S. Francesco d’Assisi, con il libro. Al di sotto di quest’ultimo vi è una scritta poco visibile che ricorda il suo ruolo di “PATRIARCHAE” (patriarca). Entrambi guardano verso l’alto dove è stata dipinta un’ Immacolata concezione a mezzo busto. Santarelli pensa che la raffigurazione dei santi sia contemporanea a quella della Lavanda dei piedi; la Vergine, invece, è da datare, per alcuni indizi stilistici, alla seconda metà del XVII secolo[8]. Le dodici stelle sul capo della Vergine riprendono l’iconografia dell’Immacolata concezione inserendo così Maria in un orizzonte al di là delle vicende storiche[9]. A sua volta questa iconografia riprende dalla “donna vestita di sole”, descritta nell’apocalisse di San Giovanni, in cui la vergine compare all’apostolo. La particolarità del dipinto è che, a causa di un restauro molto discutibile, le stelle sono tredici. Guardando attentamente, si nota che quest’ultime in principio erano dodici ma, per conservare il dipinto, sono state ripassate in seguito da un pittore poco esperto, che ne aggiunse un’altra. A mio modesto parere, anche i santi laterali dovrebbero essere stati realizzati dopo la Lavanda dei piedi, non contemporaneamente. Oltre a differire a livello stilistico con il dipinto principale, sono stati inseriti insieme alla cornice che circonda il dipinto, data la sovrapposizione con essa. Infatti, la cornice è sicuramente posteriore; ciò si desume dal fatto che in basso, sotto al Cristo, era posto un cartiglio, in seguito occultato malamente con del colore e coperto in parte dalla cornice. Inoltre, dove quest’ultima è rovinata, si intravedono delle lettere che si inseriscono perfettamente nel cartiglio e facevano sicuramente parte di questo. Purtroppo l’unica parola decifrabile è “VENIT”, che potrebbe essere l’inizio di una frase del vangelo in latino di Simone, riferita alla lavanda dei piedi: “venit ergo ad Simonem Petrum et dicit ei Petrus Domine tu mihi lavas pede” (venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?»). Per quanto riguarda l’artefice, sempre Santarelli elabora questa conclusione: “Quanto all’ autore, il dipinto ci fa venire in mente il cosiddetto manierismo metaurense, che ebbe in Luzio Dolce (notizie dal 1527 al 1606), in Giustino Episcopi (notizie dal 1527 al 1606) e in Giorgio Picchi (1550-1605), tutti e tre di Urbania, operosi protagonisti”25. Questa ipotesi fu sicuramente condizionata dal ritrovamento, sempre nel 1976, di affreschi sotto l’intonaco, attribuiti a Giorgio Picchi e situati nel convento di Santa Chiara a Urbania. Mazzacchera, non dà un’attribuzione, ma sposta la datazione alla prima decade del XVII secolo, in cui sono documentati i lavori di restauro finanziati dal ricco cagliese Berardi, aggiungendo: “Forse proprio la presenza di un simile colto mecenate dovette far accettare ai frati la decorazione del loro refettorio, che diversamente non avrebbero tollerato in ossequio al voto di povertà”[10]. Condivido maggiormente quest’ultima ipotesi ed aggiungo che, da un’ analisi stilistica, si denota che l’artista, attraverso la semplicità della sua pittura, ha ricercato un naturalismo riscontrato sia nei personaggi, sia nell’ambientazione. È questo un modo di dipingere più simile a pitture del XVII secolo. 

3.2.2 Gli altri dipinti murali 
I restauri per questi dipinti murali sono stati avviati solamente nel 1993, dopo che, durante la realizzazione di un nuovo impianto elettrico nel 1976, furono scoperti sotto l’intonaco. A differenza della Lavanda dei piedi, ad olio, questi sono realizzati a tempera e comprendono tredici rappresentazioni di santi e personaggi biblici; di queste, due sono a figura intera, mentre gli altri sono personaggi a mezzo busto. Sono molto rovinati a causa dell’intonaco che vi era sopra e solo pochi sono riconoscibili. 
Partendo dalla parete di destra, la prima rappresentazione è a figura intera, ma non è riconoscibile. Questa combacia con il riquadro di fronte, avente sempre le stesse dimensioni. Il secondo e il terzo riquadro sono ugualmente illeggibili, poiché rovinati. Il quarto riquadro rappresenta S. Pietro, riconoscendolo dall’iconografia del volto, mentre il quinto è Giovanni Battista: ciò si intuisce dalla scritta sul cartiglio: “ECCE AGNUS DEI” (ecco l’agnello di Dio). Il sesto invece sembra tenere tra le mani un animale simile ad un cane: potrebbe quindi corrispondere a San Rocco, rappresentato spesso in compagnia di questo animale. Nella parete d’entrata, il settimo riquadro è molto rovinato; si riesce a scorgere appena la palma simbolo del martirio, ma il santo non è riconoscibile. Di fianco è rappresentato un Cristo regale con la corona sul capo e lo scettro. Il nono riquadro è ben conservato e raffigura un martire con la palma, anche se non lo si identifica, così come il decimo della parete di sinistra. L’ undicesimo riquadro è l’immagine di un santo con una bandiera crociata: potrebbe corrispondere a S. Giorgio, oppure a Cristo risorto, che in molte rappresentazioni del noli me tangere è rappresentato con una bandiera identica. Il dodicesimo è sicuramente S. Sebastiano per la freccia che ha in mano. L’ultimo è di nuovo una figura intera e dovrebbe rappresentare il re David vista la corona sul capo. Molto interesse desta la figura della morte dipinta a monocromo sotto la figura del Cristo regale. Questa è rappresentata con la corona arricchita di perle, tre frecce e un cartiglio sopra, in cui è scritta una frase: “OMNIA MIHI SUBDITA” (tutti sono sottomessi a me). Quest’iconografia si riferisce al cosiddetto memento mori, una nota locuzione latina che viene tradotta letteralmente in “ricordati che devi morire”. Venne posta all’interno del refettorio come ammonimento all’effimera condizione dell’esistenza e al fatto che un vero cristiano debba essere pronto ogni giorno alla morte, cercando di non commettere peccati. Molto particolari sono anche i fiori che si sovrappongono alla morte che non sono stati realizzati ne insieme alla morte, vista la sovrapposizione con il cartiglio, ne insieme ai santi. Nella stanza ci sono anche altre decorazioni, come dei festoni sotto le finestre, oppure un affresco molto rovinato e illeggibile sopra la porta d’entrata che dovrebbe rappresentare una vanitas, realizzato insieme alle tredici figure, vista la similitudine delle cornici.

Fig. 3 – Autore ignoto, Cristo regale, dietro è ben visibile la morte.
Per Santarelli questi dipinti risalgono addirittura al tempo dell’antica rocca feltresca, visto che si pensa questa parte del convento come un riuso dell’edificio precedente, poichè non era consuetudine dei cappuccini, specialmente nel XVI secolo, decorare i locali del convento con affreschi o pitture murarie[11].
Mazzacchera invece ipotizza una loro realizzazione durante il periodo conventuale, trovando delle analogie con gli affreschi della sagrestia della chiesa di S. Francesco in Pergola[12]. Non si conosce il motivo della loro copertura. La causa potrebbe essere stata una pestilenza durante la quale le pareti venivano riverniciate, o, più semplicemente, una scelta di rinnovo. Anche lo scheletro venne coperto per gli stessi motivi, ed è da notare che questa iconografia della morte era molto in voga durante la controriforma ed il periodo barocco: ciò sicuramente avvalora l’ipotesi di una realizzazione dei santi in epoca conventuale. 

Fig. 4 - Parete sinistra del refettorio.

Fig. 5 - Alcuni esempi delle tredici rappresentazioni del refettorio.
3.3 Nel coro
Il coro dei cappuccini venne realizzato durante la ristrutturazione del convento del 1610. È realizzato in maniera molto semplice ed è interamente in legno di noce senza intarsiature e braccioli per suddividere gli stalli; la struttura, a forma di ferro di cavallo, occupa tutta la stanza. Di fronte a questo troviamo un altare collegato a quello della chiesa retrostante. Al di sopra è situato il dipinto di p. Cosma da Castelfranco, che verrà preso in esame nel paragrafo successivo. Tra il dipinto e l’altare è invece posizionata una piccola tela che rappresenta una Immacolata concezione (cm. 40X30, olio su tela), di autore ignoto, ispirata ad un cliché iconografico derivato dalle Madonne del Sassoferrato. La Vergine, con le sue dodici stelle, è rappresentata a mezzobusto[13]. 

Fig. 6 - Autore ignoto del XVIII sec., Immacolata concezione.
3.3.1 Madonna con bambino e santi (cm. 300x200, olio su tela)
Collocata oggi nel retro dell’altare maggiore, l’opera è stata attribuita al frate grazie alla firma collocata in basso a sinistra, sullo zoccolo di S. Bernardino, dove è scritto: “FRATER COSMA CAPUCCINUS PINXIT”. Paolo Piazza, chiamato Fra’ Cosma da Castelfranco (Castelfranco Veneto, 1560 – Venezia, 1621), dopo un apprendistato presso Paolo Veronese, nel 1598 entrò nell’ordine dei cappuccini. Lavorò a Praga per il sovrano Rodolfo II, lasciando in lui gli influssi del manierismo rudolfino una volta ritornato a Venezia nel 1608. Per il suo ordine lavorò a Borgo San Sepolcro, a Narni e a Rimini, mentre la presenza del frate nelle marche è documentata solo dal dipinto di questo convento. L’opera raffigura La Madonna in gloria con i santi protettori di Cagli, Michele Arcangelo e Geronzio (il primo nell’angolo in alto a sinistra, mentre il secondo nella parte opposta), insieme a S. Carlo Borromeo, S. Francesco d’Assisi e S. Bernardino da Siena. Gli altri due francescani invece non sono ancora stati individuati. Nel dipinto le figure sembrano galleggiare, assieme a teste di cherubini, in un vuoto astratto, reggendo in mano il modello della città di Cagli[14]. Questa rappresentazione della città corrisponde abbastanza alla configurazione urbanistica del XVII secolo e fa pensare che l’artista sia stato nella città marchigiana oppure abbia usato delle stampe o dei suggerimenti. L’opera può essere stata realizzata dopo il 1610, anno in cui fu ristrutturato il convento e furono decorati gli altari. Sempre nel 1610 venne canonizzato Carlo Borromeo e, come detto in precedenza, era abitudine dei cappuccini accaparrarsi immagini di novizi beati. La Mochi Onori ha osservato che ci sono diverse uguaglianze stilistiche tra questa pala e quella di Rimini. Quest’ultima raffigura i Santi protettori che presentano alla vergine la città e venne realizzata per la chiesa cappuccina di S. Giovanni Battista nel 1611. Il soggetto iconografico è lo stesso; inoltre, i due dipinti sono molto simili nei particolari, come il santo francescano all’estrema destra del dipinto di Cagli e il S. Antonio di Rimini, oppure la testa di S. Francesco in entrambi i quadri, o il vassoio che regge il modello della città. La cosa che li differenzia è la striscia di mare nello sfondo della pala di Rimini, che ricolloca la scena in un contesto terreno. Queste uguaglianze rafforzano l’ipotesi della datazione. Inoltre nel 1611 p. Cosma venne chiamato a Roma da papa Paolo V, per decorare il palazzo del fratello. Lasciò Parma e, nel percorre la via Flaminia che da Rimini porta a Roma, probabilmente fece tappa a Cagli, dove rimase il tempo necessario per realizzare la tela[15]. Da qui proseguì alla volta di Roma dove lavorò per i Borghese. In seguito ritornò a Venezia dove morì nel 1621. Il dipinto rimase nella chiesa per alcuni anni, fino a quando venne sostituito dalla pala d’altare odierna del Cialdieri e spostato nel coro dov’è tuttora. 

Fig.7 - Paolo Piazza, Madonna con bambino e santi.
Fig. 8 - Dettaglio dello zoccolo con la firma dell’autore.

Fig. 9 - Dettaglio del piatto con la rappresentazione della città di Cagli.
3.4 Nella chiesa
Entrando nella chiesa e guardando a sinistra (parete senza cappelle), incontriamo la prima tela che raffigura i Ss. Geronzio e Filippo Neri (cm.195x175, olio su tela). Questo dipinto, di autore ignoto, era collocato, stando alle cronache conventuali, nel lato destro dell’altare maggiore[16]. Il dipinto rappresenta i due santi uno accanto all’altro. San Filippo è seduto: nelle mani ha un libro e una penna. San Geronzio è in piedi e sembra benedire il suo lavoro. Il tutto è compreso all’interno di un sipario scenico. Dietro San Filippo, un paesaggio fa da sfondo, mentre sopra di lui svolazzano due cherubini. La composizione è molto semplice nel suo insieme, appunto per la presenza dei due santi che occupano quasi la totalità del dipinto. Sempre dello stesso autore, date le nette uguaglianze stilistiche, è la tela a fianco. Il dipinto rappresenta S. Giovanni Battista e S. Michele Arcangelo (cm.190x180, olio su tela). Questo era collocato invece nel lato sinistro della pala d’altare maggiore[17]. Entrambi i dipinti erano posti sopra le due porticine che dal presbiterio conducono al coro retrostante. I santi raffigurati nell’immagine hanno entrambi un significato: S. Michele Arcangelo fu ed è ancora uno dei patroni minori della diocesi di Cagli, così da dedicargli varie chiese del territorio. S. Giovanni Battista è invece ricorrente nell’iconografia cappuccina, poiché esempio di vita austera per i frati[18]. Questo santo è posto alla sinistra del dipinto ed è vestito di un abito in peli di cammello e di un mantello rosso, simbolo del martirio; in mano ha la croce con scritto “ECCE AGNUS DEI” (“ecco l’agnello di Dio”). L’Arcangelo, invece, sta per trafiggere il demonio con una lancia. 
Il pittore ha usato in entrambi i dipinti la stessa linea cromatica, come si può ben notare nelle vesti di San Geronzio e in quelle di San Michele Arcangelo, in modo tale da creare una sorta di simmetria per l’esposizione ai lati della pala d’altare maggiore. Inoltre, i personaggi delle due tele rappresentano sia una coppia di santi venuti prima della morte di Cristo, raffigurato morto nella pala d’altare, sia due santi venuti dopo la sua morte. Sulla parete destra della chiesa abbiamo tre altari lignei risalenti al XVIII secolo. Il primo altare, con su scritto “ALTARE GREGORIANO PERPETUO”, contiene al suo interno un quadro raffigurante S. Serafino da Montegranaro guarisce una bambina inferma (cm. 160x100, olio su tela). Il dipinto rappresenta il santo che, con l’imposizione della croce sulla testa di una bambina, le ridona la parola. In secondo piano alcune persone assistono alla scena, tra cui anche un frate. Nei processi di beatificazione del santo è descritta questa vicenda. All’altare le mamme del territorio cagliese recavano un tempo i loro bambini infermi, invocando una guarigione da parte del santo. Una targa del 1946 è stata posta sopra l’altare, in segno di ringraziamento verso il cappuccino che aveva aiutato un bambino.

Fig. 10 - Autore ignoto del XVIII – XIX sec.,S. Serafino da Montegranaro guarisce una bambina inferma .
Ignoto è l’autore del dipinto, che dovrebbe risalire alla fine del XVIII secolo, dopo la canonizzazione di S. Serafino, avvenuta nel 1767[19]. Nella seconda cappella, l’altare ligneo in abete ha al suo interno un emiciclo, dove, fino a pochi anni fa, era sistemata una statua in legno di S. Francesco d’Assisi del 1923, lavorata dalla ditta Guacci di Lecce. La scultura è ora conservata all’interno del convento ed è stata sostituita sempre da una statua del poverello d’Assisi. Un tempo in questo altare, dietro un quadro avvolgibile in un rullo, vi era sistemato un sepolcro usato probabilmente il giovedì santo[20]. Il terzo altare custodisce il dipinto di S. Lorenzo da Brindisi comunicato da Gesù (cm.190x120, olio su tela). Il quadro dovrebbe essere successivo al 1783, anno di beatificazione del frate. La cronaca conventuale lo posizionava nel secondo altare, mentre nel terzo era situato il Sacro Cuore di Gesù, conservato oggi all’interno del convento[21]. Il dipinto è stato adattato al terzo altare, per cui parte di esso è coperto dalla cornice lignea. Secondo Santarelli “lo stile sembra ricondurre all’ambito dei pittori pesaresi dell’epoca, come Pietro Tedeschi (1750-1805) e Gaetano Bessi (prima metà del sec. XIX)”[22]. A fianco di questo cappella è presente una statua dell’Immacolata (altezza cm 150, legno dipinto). È segnalata nel convento fin dal 1829. Un tempo era posizionata all’interno della sagrestia, mentre ora è esposta all’interno della chiesa. La zona del presbiterio è la parte più interessante. Si accede ad esso tramite una cancellata in legno, posta come divisorio tra lo spazio del clero e quello dei fedeli. Nella volta a sinistra, una piccola finestra permetteva ai frati malati di poter seguire le funzioni liturgiche. All’ interno del presbiterio, l’ornato ligneo seicentesco dell’altare maggiore è in noce, con due colonne in stile corinzio e un frontone a semicerchio, il tutto a cornice della pala d’altare maggiore. Vicino le colonne sono stati realizzati dei reliquiari posizionati dietro degli sportelli. Entrambi i lati hanno una porta d’accesso al coro retrostante. Sopra queste porte, come detto in precedenza, erano posizionate le due tele, situate ora nella parete sinistra della chiesa. L’ornato ligneo conserva inoltre un tabernacolo seicentesco, in legni policromi e tarsie a motivi geometrici realizzate in osso e madreperla[23]. È il tipico tabernacolo presente in quasi tutte le chiese cappuccine della regione, con colonnine tortili, balaustre e cupolino a cipolla, senza l’utilizzo di indorature in ossequio al voto di povertà. Per Santarelli, il tabernacolo è molto simile a quello custodito nella chiesa dei cappuccini di Cingoli, firmato da fra Giuseppe da Patrignone, autore di altri lavori simili di ebanisteria[24]. 

Fig. 11 - Autore ignoto del XVII sec., tabernacolo ligneo.
3.4.1 Cristo morto sostenuto da un angelo e i Ss. Geronzio e Caterina D’Alessandria (cm. 225x145,olio su tela)
Il dipinto dell’altare maggiore, a differenza della pala del Piazza, è iconograficamente insolito per un convento cappuccino. Posta al centro, la figura principale del Cristo morto sorretto da un angelo, è contornata nella parte alta dalle figure di angeli seduti su nubi che sorreggono bambini morti, riferimento alla strage degli innocenti. L’angelo sembra volerlo trasportare verso il cielo, dove una luce divina proveniente dall’alto crea un varco tra le nuvole. In basso, quattro cherubini aiutano a sorreggere con la propria testa il corpo di Cristo: sotto di loro uno sfondo paesaggistico crea un varco nella scena. In ginocchio, alla destra del Cristo, vi è San Geronzio, patrono di Cagli, con il pastorale nella mano destra, mentre, con la sinistra, sfiora la mano di Cristo. Sotto di lui è posta la mitria appoggiata sul libro, simboli dell’autorità e del magistero episcopale. E’ rappresentata anche un’oca, emblema di longevità e sapienza[25], oppure riferimento alla sua decapitazione avvenuta nei pressi della città marchigiana per mano di briganti, o, come vuole la tradizione, a causa dei seguaci dell’antipapa Lorenzo, quando delle oche difesero il suo corpo dopo la decapitazione. 
Alla sinistra di Cristo è invece S. Caterina d’Alessandria, in ginocchio sopra la ruota chiodata, con acconto la spada, entrambi strumenti del suo martirio; questa tiene sulla mano sinistra il libro, simbolo della sua scienza filosofica e la palma del martirio. La mano destra è posta sul petto e il volto è rivolto verso il Cristo morto. Per quanto riguarda l’attribuzione, il Vernaccia, nella prima metà del XVIII secolo, diede avvio ad una lunga tradizione scrivendo: “Bernardo Catelani di Urbino Cappuccino; suo quadro a Cagli all’altare maggiore nello stile della scuola di Raffaello”[26]. Questa attribuzione venne poi ripresa dal Lazzari, il quale esclude che il cappuccino sia stato allievo di Raffaello, ma fu comunque seguace del suo stile . Il Lanzi, alla fine del XVIII secolo, nella sua Storia pittorica riprende la descrizione del Lazzari: “Fra Bernardo Catelani urbinate che dipinse in Cagli la tavola dell’altare maggiore della chiesa dei cappuccini dice nello stile che aveva espresso la scuola di Raffaello ma non lo da suo allievo”[27]. La sua descrizione venne poi trascritta in un cartiglio ed incollata dietro la pala. Di Catelani purtroppo abbiamo solamente poche notizie biografiche. Originario di Urbino, visse nella seconda metà del XVI secolo e morì a Crocicchio. Fu autore di alcune tavole di ottima fattura, di uno stile derivato da Raffaello. La qualità non può essere riscontrata visto che non si conosce attualmente l’ubicazione delle presunte opere di Catelani, ma certamente lo stile derivato da Raffaello è totalmente assente nella pala di Cagli. Catelani invece potrebbe aver eseguito, nella seconda metà del XVI secolo, un alt ro dipinto realizzato precedentemente[28]. L’unica tela all’interno del convento che risale a quel periodo e che potrebbe avere a che fare con Catelani, è la Madonna col Bambino e S. Francesco d’Assisi, descritta in precedenza, anche se non presenta le caratteristiche di una pala d’altare. Era tenuta in grande considerazione dai frati che pregavano davanti questa. L’acconciatura della Madonna sembra ricondurre proprio al XVI secolo, così come la composizione semplice richiama l’umiltà di questo ordine nei primi decenni di fondazione. Inoltre, visto che non si trovano dipinti di questo artista, dubito sia stato autore di dipinti di ottima fattura, ma molto più verosimilmente di tele di carattere devozionale. Altra ipotesi è che il Vernaccia potrebbe aver confuso l’opera del Piazza, conservata nel coro, con un’ opera di questo artista urbinate, visto che entrambi furono cappuccini. Oggi la tela è attribuita a Girolamo Cialdieri dalla Mochi Onori[29], dopo che Santarelli si era di molto avvicinato pochi anni prima, dandola per opera della scuola di Claudio Ridolfi. Girolamo Cialdieri di Urbino, allievo e collaboratore proprio di Ridolfi, realizzò altre opere per i conventi cappuccini della zona. Per la Mochi Onori, il dipinto si colloca stilisticamente intorno al 1625-30, in diretto rapporto con un dipinto conservato nella chiesa di Santa Chiara in Urbania, che rappresenta la Madonna col Bambino in gloria e i santi Francesco, Giovanni Battista, Cecilia e Chiara[30]. In effetti si riscontrano somiglianze negli angeli posti lateralmente in alto, oppure nei paesaggi rappresentati in entrambi i casi nella parte medio bassa dei due dipinti. Un elemento invece che accomuna tutte le sue opere è la rappresentazione della mano, con le ultime tre dita unite, caratteristiche di tutti i suoi personaggi rappresentati. Questa serialità delle sue opere lo rende inconfondibile anche se all’interno del dipinto ci sono riferimenti ad altri autori. Ad esempio, nella pala si nota una ripresa del cristo morto dal cristo in pietà di Taddeo Zuccari. Da notare è anche il pastorale di San Geronzio, identico a quello rappresentato nella Madonna con il bambino e i Ss. Geronzio o Martino di Tours, Maria Maddalena e donatori, attribuito alla scuola di Federico Barocci. Il dipinto commissionato dalla famiglia Berardi nel 1590 per il proprio altare nella chiesa di San Francesco a Cagli, venne prima requisito dai commissari napoleonici nel 1811. Fu recuperato in seguito, ma i Felici che subentrarono nella proprietà dell’ altare ai Berardi, decisero nel 1905 di vendere l’opera per una modica somma al Pio Sodalizio dei Piceni di Roma, dov’è tuttora[31]. Cialdieri potrebbe aver visto il pastorale direttamente dal dipinto nel 1635, anno in cui la sua presenza è attestata a Cagli per la decorazione della volta nella chiesa di San Giuseppe. Questo sposterebbe la datazione del dipinto dei cappuccini di un decennio, gli anni in cui realizzò diverse opere per committenti cagliesi. Inoltre, risulta strano che nemmeno un ventennio dopo la realizzazione della pala di Paolo Piazza, questa venisse sostituita da quella del Cialdieri, ma proprio le sue opere realizzate per Cagli potrebbero essere state un incentivo per la committenza, nel richiedere un lavoro dell’artista urbinate. 
Fig. 12 - Girolamo Cialdieri, Cristo morto sostenuto da un angelo e i Ss. Geronzio e Caterina D’Alessandria.
CONCLUSIONI
Questo lavoro di tesi è stato sicuramente proficuo al fine di conoscere questo spaccato di storia cagliese. Nella descrizione della rocca martiniana, ho ritenuto importante soffermarmi sulle parti strutturali che vennero riutilizzate nella costruzione del convento, per dimostrare come sia avvenuto il passaggio da edificio bellico a religioso. È stato infatti dimostrato che la facciata del convento rivolta verso Cagli è certamente un riutilizzo, mentre non si hanno certezze per il refettorio. Anche le dimensioni del cortile interno sono simili a quelle descritte da Francesco di Giorgio Martini per il ricetto. Tutto ciò fa intuire che la struttura perimetrale del convento si basa su una sovrapposizione con il vecchio edificio. 
Riguardo gli oggetti artistici, rimane ancora anonimo l’autore della Lavanda dei piedi. È stato interessante notare come su questo dipinto siano stati effettuati nel tempo diversi rimaneggiamenti, dei veri e proprio restauri amatoriali, che lo hanno deturpato e che hanno sicuramente inciso nella scelta ottocentesca di occultarlo con la tela dell’Ultima cena. Si è dimostrato come la cornice ed i santi laterali siano posteriori alla lavanda dei piedi. Inoltre, è evidente che il dipinto sia opera di un pittore seicentesco, che realizzò la scena nella massima semplicità di contenuti, ma con una tendenza ad un naturalismo degna di nota. Questa opinione è rafforzata dall’ipotesi di una realizzazione avvenuta grazie alla donazione dell’illustre cagliese Ettore Berardi. 
I restanti dipinti del refettorio sono stati presi in esame dal punto di vista iconografico. Questo ha permesso di ipotizzare una loro realizzazione durante il periodo conventuale, probabilmente nel XVII secolo, quando furono permesse le prime decorazioni. 
Nella chiesa, la pala del Cialdieri ha rilevato diversi rifermenti ad altri dipinti, tra cui, degno di nota, è la copia del pastorale di S. Geronzio dal dipinto della Madonna con il bambino e i Ss. Geronzio o Martino di Tours, Maria Maddalena e donatori, un tempo conservato nella chiesa di San Francesco a Cagli. Rimane invece un mistero il motivo per cui il dipinto andò a sostituire la pala di Paolo Piazza, dato che, a differenza di quest’ultimo, non ha nessun tipo di riferimento ai temi francescani. Per quanto riguarda l’attribuzione settecentesca della pala dell’altare maggiore al pittore Bernardo Catelani, fu sicuramente un banale errore. 
In ultimo, mi auguro che questa tesi sia uno spunto per altre ricerche, così da far conoscere e salvaguardare ancor di più questo luogo, ormai abbandonato dai suoi umili padroni.

© 2015 by Massimo Mattiacci - Tutti i diritti riservati




[1] G. Santarelli, op. cit., pp. 70-71.
[2] G. Santarelli, op. cit., p. 77.
[3] Ibidem, p. 79.
[4] Mazzacchera, op. cit., p. 169.
[5] L. Rèau, Iconographie de l'art chrétien, Parigi, 1955, p. 406
[6] Enciclopedia Cattolica, Vol.7, Città del Vaticano, 1951, p. 967
[7] H. Belting, I canoni dello sguardo, Torino, 2010, pp. 93-95 .
[8] G. Santarelli, op. cit., p. 83.
[9] V. Francia, L’immacolata concezione: alla ricerca di un modello iconografico in una donna vestita di sole, Milano 2005
[10] A. Mazzacchera, op. cit., p. 169.
[11] Santarelli, op. cit., p. 87
[12] A. Mazzacchera, op. cit., p. 169
[13] Santarelli, op. cit., p. 74.
[14] L. Mochi Onori, Paolo , Paolo Piazza, in Le Arti nelle Marche al tempo di Sisto V, a cura di P. del Poggetto, Milano, 1992, p. 450.
 [15] Ibidem, pp. 449-450.
[16] Giuseppe da Scapezzano, op. cit., f. 4.
[17] Ibidem, f. 3
[18] G. Santarelli, op. cit., pp. 62-63.
[19] G. Santarelli, op. cit. pp. 65-66.
[20] Ibidem, p. 67.
[21] Giuseppe da Scapezzano, op. cit., f. 3.
[22] G. Santarelli, op. cit., p. 69.
[23] A. Mazzacchera, op. cit., p. 168
[24] G. Santarelli, op. cit., pp. 71-73.
[25] G. Santarelli, op. cit., p. 51.
[26] Ibidem, p.53.
[27] Lanzi, Storia pittorica, Firenze, 1884, p.85
[28] A. Fucili, Girolamo Cialdieri, in Arte Francescana tra Montefeltro e Papato, a cura di A. Mazzacchera, Pesaro, 2007, p. 201.
[29] L. Mochi Onori, op. cit., p.450.
[30] Ibidem, pp.450-451.
[31] Marco Droghini, Madonna con il Bambino e i Ss. Geronzio o Martino di Tours, Maria Maddalena e donatori (scuola di Federico Barocci), in L‘arte conquistata a cura di Bonita Cleri e Claudio Giardini, Artioli Editore,Modena, 2003, p. 221 .

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